Essere accettati dagli altri è un bisogno primario. Siamo una specie relazionale, e per millenni la connessione con il gruppo è stata una strategia di sopravvivenza. Ma quando il bisogno di approvazione prende il sopravvento e ci porta a dire sempre sì, anche a costo del nostro benessere, entriamo nel territorio del people pleasing.
Il people pleasing non nasce da semplice educazione o indole: affonda le radici in schemi psicologici profondi, costruiti nel tempo attraverso esperienze di attaccamento, modelli familiari rigidi, rinforzi sociali e processi cognitivi disfunzionali.
Cosa significa davvero “compiacere gli altri”?
Il termine people pleasing non è una diagnosi clinica, ma un pattern comportamentale in cui la persona tende a compiacere sistematicamente gli altri per evitare il rifiuto, la rabbia o il conflitto.
Secondo la Schema Therapy (Young et al., 2003; Bach et al., 2018), questo schema si sviluppa spesso da esperienze precoci legate a famiglie ipercritiche, amore condizionato, rigidità o svalutazione. Non si tratta di semplici tratti caratteriali, ma di strutture cognitive profonde che modellano la percezione di sé e delle relazioni.
I tre schemi alla base del people pleasing
Auto-sacrificio: sentirsi responsabili per il benessere degli altri, ignorando i propri bisogni. Il messaggio interno è “non posso deludere nessuno”.
Sottomissione: rinunciare ai propri desideri per paura di essere puniti, rifiutati o di provocare conflitti. Deriva spesso da ambienti familiari autoritari.
Ricerca di approvazione: mettere da parte i propri bisogni per ottenere consenso, affetto o status. L’autostima si costruisce solo sul giudizio altrui.
Nella Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), il people pleasing è analizzato come un pattern di pensieri automatici disfunzionali che portano a comportamenti evitanti e autolimitanti.
Le convinzioni centrali (core beliefs) tipiche includono:
- “Se deludo gli altri, verrò abbandonato.”
- “Per essere amato, devo essere sempre disponibile.”
- “Non valgo nulla se non sono utile.”
Queste credenze portano a distorsioni cognitive comuni, come:
- Lettura del pensiero (“penseranno che sono egoista se dico di no”)
- Catastrofizzazione (“se rifiuto, perderò quell’amicizia”)
- Regole rigide (“devo sempre aiutare gli altri, altrimenti non sono una brava persona”)
Le conseguenze psicologiche
“Dire sempre sì ha un costo emotivo elevato:
Le conseguenze più comuni includono:
- Ansia costante, per il timore di deludere
- Rabbia repressa, che può sfociare in somatizzazioni o esplosioni emotive
- Burnout relazionale, per l’eccessivo carico emotivo
- Perdita di sé, cioè, smarrire i propri bisogni e valori autentici
Uno studio pubblicato sul Journal of Personality (Cheek & Buss, 1981) ha mostrato che le persone con elevato desiderio di compiacere manifestano livelli più alti di stress e minore soddisfazione relazionale.
Come smettere di compiacere (in modo graduale e realistico)
Interrompere il pattern del people pleasing richiede consapevolezza, pratica e tolleranza dell’ansia iniziale. Alcune strategie evidence-based:
- Riconosci i tuoi pensieri automatici
Secondo la Cognitive Behavioral Therapy (CBT), i pensieri disfunzionali (es. “Se dico no, deluderò tutti”) mantengono il comportamento disadattivo. Lavorare sulla ristrutturazione cognitiva (Beck, 2011) è fondamentale.
- Sviluppa assertività (non aggressività)
Essere assertivi non significa imporsi, ma esprimere i propri bisogni e limiti con chiarezza. In terapia cognitivo-comportamentale, si utilizzano protocolli di role-playing, ristrutturazione delle convinzioni disfunzionali e strategie di esposizione per allenare una comunicazione più autentica e diretta (Hope et al., 2010).
- Tollera il disagio iniziale
L’ansia da rifiuto si riduce con l’esposizione graduale: inizia con piccoli “no” e osserva che la relazione spesso non finisce, anzi migliora.
- Allena l’auto-compassione
L’auto-compassione è un antidoto potente alla colpa e all’ipercriticismo interno. Accettare i propri limiti riduce il bisogno di conferme esterne.
Conclusione
Compiacere gli altri non è sempre sbagliato. Ma se diventa la tua unica modalità di relazione, rischi di perdere contatto con chi sei davvero.
Smettere di compiacere non è egoismo: è un atto di rispetto verso se stessi. Solo quando impari a dire ‘no’ in modo autentico, puoi dire ‘sì’ in modo sincero. È da lì che nascono relazioni più sane, libere e reciproche. Riconoscere questi pattern e lavorarci con l’aiuto di un* psicoterapeuta può aiutarti a costruire relazioni più autentiche e libere, senza rinunciare a te stess*.
Se ti riconosci in questi pattern, iniziare un percorso psicoterapeutico può aiutarti a riscrivere la narrativa con cui ti relazioni al mondo.
Bibliografia
American Psychiatric Association. (2013). DSM-5: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
Beck, J. S. (2011). Cognitive Behavior Therapy: Basics and Beyond. Guilford Press.
Baumeister, R. F., & Leary, M. R. (1995). The need to belong: Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation. Psychological Bulletin, 117(3), 497.
Bowlby, J. (1969). Attachment and Loss. Vol. 1: Attachment.
Cheek, J. M., & Buss, A. H. (1981). Shyness and sociability. Journal of Personality and Social Psychology, 41(2), 330–339.
Gilbert, P. (2009). The Compassionate Mind.
Linehan, M. M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. Guilford Press.
Neff, K. (2011). Self-Compassion: The Proven Power of Being Kind to Yourself.
Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema Therapy: A Practitioner’s Guide. Guilford Press.