Il termine Impostor Phenomenon nasce nel 1978, grazie al lavoro pionieristico di Pauline Rose Clance e Suzanne Imes. Le due psicologhe notarono come molte donne, pur essendo altamente qualificate, vivevano un senso costante di inadeguatezza, come se i loro successi non fossero davvero “meritati”.
Clance e Imes non descrivevano una malattia vera e propria, ma un modo particolare di percepirsi:
- difficoltà a interiorizzare i risultati positivi,
- tendenza ad attribuire i successi a fattori esterni,
- paura di essere “smascherati”,
- ansia e vergogna legate alla sensazione di non essere all’altezza.
All’epoca, il fenomeno era osservato soprattutto tra le donne che iniziavano ad accedere a ruoli professionali di prestigio in un mondo ancora fortemente maschile. Ma ricerche successive (Harvey & Katz, 1985; Sakulku & Alexander, 2011; Vergauwe et al., 2015) hanno mostrato che la sindrome dell’impostore non ha genere: può riguardare chiunque si senta definito dalle proprie prestazioni o dal riconoscimento degli altri.
Le convinzioni di fondo
Alla base c’è spesso un sistema di credenze profonde sul proprio valore personale, riassumibili in pensieri come:
- “Valgo solo se riesco.”
- “Se sbaglio, deluderò tutti.”
- “Devo dimostrare di meritare ciò che ho.”
In altre parole, la stima di sé diventa “condizionata”: dipende da come ci si comporta e da cosa gli altri pensano. La sindrome dell’impostore può essere vista come l’espressione di un tema di inadeguatezza e vergogna, sostenuto da strategie di compensazione perfezionistica.
Quando la persona ottiene un successo, tende a minimizzarlo (“è stata solo fortuna”). Al contrario, ogni errore, o anche solo la possibilità di sbagliare, sembra confermare la sensazione profonda di non valere abbastanza.
Il ruolo del perfezionismo
Il perfezionismo, soprattutto nella sua forma maladattiva (Flett & Hewitt, 2002), è una sorta di scudo. Serve a proteggersi dal giudizio, mantenendo standard altissimi e una costante vigilanza su sé stessi.
Questa dinamica è spesso alimentata da pensieri ricorrenti come:
- “Se non sono impeccabile, scopriranno che non valgo.”
- “Ogni errore è la prova che non merito la fiducia che mi danno.”
Nel breve periodo, questo atteggiamento può anche ridurre l’ansia, ci si sente momentaneamente “al sicuro”, ma nel lungo termine rafforza l’idea di essere una frode. I successi non vengono interiorizzati, perché appaiono obbligati o casuali. La persona finisce per percepire la propria vita come una recita.
Le radici relazionali e l’apprendimento precoce
Molte persone che sperimentano la sindrome dell’impostore riportano storie familiari con pattern relazionali in cui l’amore e l’approvazione erano condizionati al rendimento.
Come osservato da Gilbert (2009), tali ambienti evolvono un sistema di autocritica interna che funziona come strategia di sopravvivenza emotiva: “mi giudico da solo per evitare di essere giudicato dagli altri”.
Nel tempo, questa dinamica diventa un modello stabile di sé: “devo essere perfetto per essere accettato”.
La sindrome dell’impostore può dunque essere letta come un tentativo disfunzionale di mantenere il legame e l’approvazione, attraverso il controllo e l’autosvalutazione.
Un esempio clinico
L., 32 anni, ricercatore universitario, arriva in terapia dopo un periodo di forte stress. È stimato nel suo ambiente, ma riferisce la sensazione costante di non meritare i risultati raggiunti. Ogni pubblicazione, ogni conferenza, viene vissuta come una prova da superare per non essere “smascherato”. Racconta di un’infanzia segnata da genitori molto esigenti, che lodavano i successi ma criticavano severamente ogni errore. In terapia emergono pensieri automatici del tipo “non sto facendo abbastanza” e “prima o poi capiranno che non sono all’altezza”.![]()
Il lavoro terapeutico si è concentrato inizialmente sul riconoscimento dei pensieri disfunzionali e sulla validazione delle emozioni di paura e vergogna. Successivamente, l’obiettivo è diventato modificare lo schema di autostima condizionata, promuovendo esperienze di successo interiorizzato e autocompassione.
Questo caso mostra come la sindrome dell’impostore, pur non essendo un disturbo clinico codificato, possa funzionare come fattore di vulnerabilità per ansia, depressione e burnout, soprattutto in contesti ad alta richiesta di performance.
L’intervento terapeutico sulla sindrome dell’impostore
Identificare e mettere in discussione le credenze centrali (“non valgo”, “devo sempre dimostrare di meritare”), lavorando sulla validità e l’utilità di tali pensieri.
Lavorare sugli schemi e sul meccanismo di autovalutazione condizionata
Aiutare il paziente ad esplorare i bisogni emotivi insoddisfatti all’origine dello schema di inadeguatezza, promuovendo un senso di sé più integrato e meno dipendente dal riconoscimento esterno.
Infine favorire lo sviluppo di un nuovo rapporto con il proprio mondo interno: osservare i pensieri senza fondervisi e rispondere all’autocritica con atteggiamenti di accettazione e gentilezza.
L’introduzione di pratiche di self-compassion può ridurre la tendenza al giudizio e favorendo una forma di motivazione più sana e intrinseca.
In tutti i casi, l’obiettivo non è “convincere” la persona del proprio valore, ma ricostruire la relazione con il proprio sistema di autovalutazione, integrando cognizioni, emozioni e comportamenti in una rappresentazione più realistica e flessibile del sé.
Conclusioni
La sindrome dell’impostore rappresenta un modello di funzionamento rigido, in cui l’autostima è condizionata e la percezione di sé è filtrata da distorsioni cognitive e metacognitive.
Dietro la paura di essere scoperti si cela la paura più profonda di non essere amabili al di là della prestazione.
Il lavoro terapeutico, in questo senso, è un processo di riconnessione con il valore personale non condizionato.
Non si tratta di eliminare la paura o il dubbio, ma di imparare a riconoscerli come parte del proprio sistema di protezione e di poterli osservare, con consapevolezza e compassione, senza che definiscano più la propria identità.